Tecnologia e disuguaglianza: come l’accesso digitale sta ridisegnando le classi sociali

In un’epoca in cui la tecnologia penetra ogni ambito della nostra vita, il vero discrimine sociale non è più tra chi possiede e chi no, ma tra chi può accedere, comprendere e utilizzare il digitale e chi ne è escluso. Il risultato?  Una società sempre più polarizzata.

Nel dibattito pubblico si continua a parlare di digital divide come di un problema “tecnico”: connessioni assenti, mancanza di dispositivi, scarsa alfabetizzazione informatica. Ma oggi la frattura che attraversa la società è più profonda, meno visibile, e infinitamente più pericolosa: riguarda l’accesso effettivo a una cittadinanza digitale piena e consapevole.

Il progresso tecnologico, anziché colmare le distanze sociali, rischia di rafforzare una nuova forma di disuguaglianza strutturale: quella tra chi è in grado di abitare il mondo digitale – con competenze, strumenti, tempo e reti – e chi vi si muove con difficoltà, in ritardo, subendo logiche che non conosce e processi che non può controllare.

Già all’inizio degli anni Duemila, Jeremy Rifkin lo aveva scritto con chiarezza profetica ne L’era dell’accesso: il valore economico si sarebbe sempre più spostato dalla proprietà all’accesso. In un mondo dove tutto – dal software alla cultura, dall’energia ai servizi – si consuma in modalità on-demand, il vero vantaggio non sta nel possesso, ma nella possibilità di “entrare”.

Ma ciò che Rifkin aveva intuito è che l’accesso stesso può diventare una forma di privilegio. E oggi ne vediamo gli effetti concreti: chi ha accesso alle piattaforme, ai servizi digitali, all’informazione, alle reti professionali e ai percorsi formativi più aggiornati, accumula potere, influenza, ricchezza. Chi ne è escluso, finisce per scivolare ai margini. Un margine che non è più solo economico, ma epistemico, politico, sociale.

Stiamo parlando di una nuova “élite digitale”, e una “nuova marginalità”. L’innovazione tecnologica sta infatti producendo una nuova classe dominante. Non definita tanto dal possesso di capitali materiali, ma da una superiorità nell’accesso e nell’uso del sapere tecnologico. Chi ha familiarità con ambienti digitali, sa decifrare dati, costruire automazioni, orientarsi nei meccanismi algoritmici, occupa già una posizione di vantaggio. Dall’altro lato, cresce la fetta di popolazione che resta indietro.

Non si tratta solo di mancanza di strumenti, ma di assenza di agency. Di capacità di leggere la realtà, di adattarsi, di prendere decisioni in un contesto digitale sempre più complesso. Questa condizione produce non solo disoccupazione o precarietà, ma una forma più sottile e pervasiva di esclusione: l’impossibilità di partecipare pienamente alla società.

In altre parole, stiamo vivendo l’effetto dell’allineamento di disuguaglianza digitale a quello di una disuguaglianza sociale (mettendo in discussione un qualunque modello democratico).

La polarizzazione economica e sociale del nostro tempo è sempre più guidata da logiche tecnologiche. E il divario tra ricchi e poveri non si misura più solo nel reddito o nei beni posseduti, ma nella capacità di interagire con le infrastrutture digitali della conoscenza.

Mentre un’élite digitale accede a lavori meglio retribuiti, a servizi più efficienti, a informazione di qualità, un’altra parte della popolazione resta confinata in ambienti digitali più poveri, meno trasparenti, esposta a sfruttamento economico e disinformazione. Le conseguenze sono profonde: non solo in termini di diseguaglianza, ma anche di partecipazione democratica e coesione sociale, partendo dal concetto che solo avendo pari opportunità/diritti si può contribuire alla democrazia.

Stiamo assistendo insomma alla nascita di una nuova forma di stratificazione sociale, meno visibile delle classi novecentesche, ma altrettanto determinante. Non più solo operai, impiegati, dirigenti. Ma cittadini digitalmente abilitati, cognitivamente armati, e cittadini digitalmente disarmati.

È una divisione che attraversa anche generazioni, territori, settori economici. Una linea di frattura che rischia di diventare permanente se non si interviene con urgenza su educazione, politiche formative, accesso equo alle risorse tecnologiche e culturali.

Non basta più parlare di “accessibilità” come un tema tecnico. L’accesso deve essere riconosciuto come un diritto sociale fondamentale, al pari del diritto all’istruzione, alla salute, al lavoro. Solo così potremo costruire una società in cui l’innovazione non sia un fattore di esclusione, ma una leva di emancipazione collettiva.

Perché, come scriveva Rifkin, non è sufficiente che qualcosa sia accessibile: bisogna anche essere messi nelle condizioni di accedervi davvero. E oggi, più che mai, non possiamo permetterci una società che corre veloce, ma lascia indietro intere fasce della popolazione.