Puntualmente a cadenza quasi bimestrale, inciampo in qualche post, dove si spendono in maniera gratuita delle sterili polemiche, rivolte al “giovane fannullone” che vuole bruciare le tappe professionali, gestire il proprio tempo e far lievitare drasticamente la propria busta paga, in maniera rapida e verticale.
Tutto questo si materializzata poi con la classica e ormai inflazionata frase “I giovani d’oggi non vogliono fare sacrifici!”. Questa riflessione ormai inflazionata è diventata quasi un riflesso automatico ogni volta che si osserva un giovane cercare di accelerare i tempi e ambire a qualcosa di grande “troppo presto”. Ma davvero tutto questo è solo impazienza nel voler bruciare le tappe?
Per dare una risposta, dovremmo semplicemente capire che stiamo osservando una generazione che si forma e cresce in un contesto completamente diverso da quello che ha visto nascere le generazioni precedenti. I giovani di oggi non hanno avuto l’esperienza di una società strutturata, “solida”, per usare l’espressione di Zygmunt Bauman. Al contrario, “li stiamo facendo vivere” immersi nella liquidità del presente, in una realtà in cui i riferimenti culturali, morali, professionali e persino identitari sono diventati mobili, fragili, negoziabili.
Nietzsche parlava della “morte di Dio” non solo come fatto religioso, ma come crollo di ogni valore assoluto, come smarrimento dell’uomo in un mondo in cui i vecchi riferimenti non valgono più. Ecco: i giovani oggi vivono in pieno questa condizione, ed è questo l’assioma da cui dobbiamo partire, prima di esprimerci.
I “Dèi” che orientavano il cammino – famiglia, patria, fede, carriera, autorità – sono stati messi in discussione, decostruiti, talvolta svuotati di significato. In cambio, è arrivata una nuova promessa: quella della libertà totale. “Puoi diventare ciò che vuoi”, “Il mondo è tuo”, “Tutto è possibile se lo desideri davvero”. Ma come ci ricorda Sartre, la libertà, quando è assoluta, è anche un peso. Perché comporta la responsabilità totale delle proprie scelte, senza l’ancora rassicurante di un ordine prestabilito.
In questo scenario, entra poi in gioco la cultura della performance, che si somma algebricamente a quanto detto. Una cultura che ha sostituito l’etica del lavoro con l’estetica del successo. Non si cerca più solo di costruire qualcosa, ma di apparire, di emergere, di essere visti. L’identità stessa si plasma attorno alla visibilità, ai risultati, ai riconoscimenti, che portano sicuramente a nascondere i fallimenti.
È un tema centrale affrontato anche da Maura Gancitano e Andrea Colamedici nel loro interessante lavoro dal titolo “La società della performance”, dove viene spiegato con grande lucidità come l’esistenza stessa sia diventata una competizione continua, in cui ognuno è chiamato a mostrarsi costantemente all’altezza di uno standard, spesso inarrivabile.
Per usare una similitudine: E’ come dover correre assetati (il bisogno), in cerca di acqua (appagamento), in una prateria arida e priva di punti di riferimento (la società). Infine, in questo scenario, il rischio diventerebbe molto alto, perché perdersi (sbagliare) vorrebbe dire morire di sete.
Circa tre anni fa, Ernesto Maria Ruffini, al termine della Lectio Magistralis, in occasione del Corso-concorso SNA, disse una cosa illuminante:
“tutti i NOSTRI curriculum vitae a prescindere dal tipo di formazione che abbiamo o la professione che esercitiamo hanno delle parti in comune: gli spazi vuoti tra le righe.”
Queste righe bianche rappresentano la parte più importante di noi, come i nostri fallimenti o le cose che potevamo, ma non abbiamo voluto fare. Queste cose parlano di noi, più di ogni altra esperienza lavorativa o formativa. Ruffini invita quindi ad avere cura delle parti non scritte, perché gli errori non vanno archiviati ma devono diventare parte integrante nella propria consapevolezza (anche professionale).
“Ma che messaggi stiamo trasmettendo quindi ai nostri giovani?”
Che non c’è più spazio per il fallimento, per la lentezza, per l’incompiuto o semplicemente per gli errori. Ogni giovane si ritrova quindi a correre inconsapevolmente una gara che non ha scelto, in un sistema che sembra premiare solo chi sa brillare senza mai spegnersi.
Le generazioni precedenti (compresa la mia) sono cresciute in un’epoca che, pur con tutti i suoi limiti, offriva una struttura. Esistevano confini dati da regole sociali condivise, da una morale più uniforme, da percorsi professionali più lineari. Questi confini, volenti o nolenti, davano un senso di direzione. I giovani di oggi, invece, devono inventarsi tutto. E spesso lo fanno in solitudine, cercando di decifrare un mondo che cambia continuamente, sotto i loro piedi.
Per questo, prima di giudicare il loro comportamento, dovremmo porci una domanda più scomoda, ma necessaria:
“Saremmo riusciti noi a crescere serenamente in un mondo così fluido e competitivo?”
E forse è proprio da questa domanda, che può nascere una riflessione più profonda, che coinvolge tutti noi.
Perché il problema non sono i giovani che vogliono arrivare in fretta. Il problema è che stiamo chiedendo noi a loro di crescere rapidamente in un sistema instabile, esigente, contraddittorio, senza offrirgli gli strumenti per orientarsi. Li invitiamo a credere che tutto è possibile, e poi li giudichiamo quando si perdono nell’arida prateria.
Ecco perché comprendere non significa giustificare, ma prendersi cura. Significa costruire nuovi spazi di ascolto, nuovi modelli di guida, portare testimonianze e coniare nuove parole per nominare ciò che oggi non ha nome. Significa riconoscere che non possiamo chiedere ai giovani di adattarsi a un mondo che noi stessi facciamo fatica a comprendere.
Possiamo raccontarcela come vogliamo, il punto è che oggi stiamo sentenziando in un mondo che ci è stato dato in “comodato d’uso” dalle nuove generazioni, che rappresentano il futuro.
Se vogliamo davvero aiutarci e aiutarli, dobbiamo fare un passo indietro, e uno in avanti, al loro fianco.