Negli anni ho avuto a che fare con molti gruppi di adolescenti all’interno di diversi contesti educativi, e quindi ho avuto spesso l’occasione di confrontarmi con loro su svariati temi legati alla cultura ed all’integrazione nella società. Ho visto parecchie tendenze affermarsi tra ragazzi poco più che sedicenni: mode passeggere o veri e propri stili di vita, caratterizzati da valori difficilmente condivisibili, ma allo stesso tempo affascinanti.
La mia curiosità, accompagnata dallo spirito critico dell’educatore, ultimamente si è focalizzata sul fenomeno di costume che al momento sta dilagando tra i giovanissimi: l’idea di intraprendere una carriera da “Youtuber”. Per dirla semplicemente, stiamo parlando della possibilità di diventare famosi ed avere un ritorno economico, tanto rapido quanto cospicuo, mediante la pubblicazione di materiale video autoprodotto e condiviso sulla piattaforma digitale YouTube.
Quando ero adolescente, uno dei sogni giovanili maggiormente ricorrenti era quello di raggiungere la fama nel mondo della musica con una propria band, ora invece il più diffuso è quello di ottenere visibilità globale grazie alle piattaforme sociali (Social Network) di Internet. Sono sogni giovanili che generano in alcuni adolescenti una caparbietà ed una convinzione talmente forti da portarli ad abbandonare addirittura il proprio percorso scolastico.
Mi sono chiesto che cosa ci sia dietro questa “scorciatoia” così invitante per il successo ed il denaro. La sempre maggiore accettazione di questo fenomeno, anche da parte di persone non propriamente giovanissime, mi ha convito a fare un’analisi. È davvero alla portata di tutti la possibilità di un guadagno facile con YouTube? O tutto questo è semplicemente l’ennesimo espediente per sfruttare “folle di cervelli inconsapevoli” per a fini puramente consumistici, messo in atto dai grandi protagonisti del mercato digitale?
Inizio con una breve premessa. Nell’arco di un decennio noi tutti siamo stati catalogati come appartenenti ad una “Generazione digitale”, secondo un freddo, artificiale ordinamento, basato sui criteri di accesso alle tecnologie. Rientro personalmente in quella che chiamano “Generazione X”, e assieme a me ne fanno parte tutti quelli nati tra il 1965 e il 1980: si tratta di coloro che hanno visto la nascita dell’home computer ed hanno vissuto il passaggio tra la “old” e la “new” economy. Gli appartenenti alla “Generazione Y” sono nati tra il 1981 e il 2000, e hanno vissuto il cambiamento socio-culturale portato da Internet, la rete globale. Ne esiste ora una terza, chiamata “Generazione Z”, di cui fanno parte i nati dopo l’anno 2000: si tratta dei “Millennials”, ovvero di coloro che vengono considerati i veri e propri nativi digitali. Il 96% degli appartenenti a quest’ultima categoria possiede almeno un profilo su un Social Network.
Quest’ultimo dato in particolare conduce a riflettere su come l’umanità stia vivendo un nuovo rapporto con la tecnologia, che si manifesta principalmente nella trasposizione del proprio io “reale” in uno, chiamato “avatar” da alcuni, che vive nel mondo virtuale. Questa evoluzione sta attirando ormai da parecchio tempo l’attenzione di sociologi, psicologie e antropologi impegnandoli in approfondite ricerche e rigorosi studi, atti a redigere la più svariata narrativa, su una delle più grandi trasformazioni socio-culturale che il genere umano abbia mai vissuto. È infatti palese che i Social Network abbiano trasformato per sempre il nostro modo di vivere e percepire la realtà, creando un’integrazione apparentemente imprescindibile dei nostri legami e necessità reali con quelli che esistono nel cyber-spazio.
Tra tutte piattaforme sociali, a mio parere YouTube è quella che merita più attenzione, anche per la sua particolare genesi. Non credo che in questa sede serva chiarire cosa sia YouTube e ricordare la folgorante ascesa che l’ha portata ad essere la più grande piattaforma di condivisione di materiale video al mondo. Vorrei tuttavia riportare alcuni numeri, a mio avviso particolarmente significativi. Dal 2005, anno della pubblicazione del primo video ad oggi, la piattaforma è arrivata a contare quasi un miliardo di utenti attivi (che partecipano cioè giudicando o caricando contenuti sulla piattaforma), un miliardo e mezzo di visualizzazioni al mese e una media di ottantamila caricamenti giornalieri. Se scendiamo nel dettaglio di casa nostra le cifre sono ancora una volta sorprendenti: in Italia ci sono infatti circa ventisette milioni di profili attivi, di cui il 70% appartiene ad utenti che hanno tra i 13 e i 16 anni.
Questi volumi posso dare a grandi linee l’idea della potenza di fuoco di questo network in termini di diffusione mediatica, e relativa propaganda, tra i giovanissimi di oggi, ovvero gli adulti di domani. La vera grande trasformazione è avvenuta però nel 2006, dopo l’acquisizione della piattaforma da parte di Google. Il colosso informatico, famoso per il proprio motore di ricerca, ha intrapreso mediante quel primo passo un percorso di grande trasformazione del mercato dei media e della pubblicità, grazie ad una visione strategica che ha reso YouTube, prima semplice piattaforma di divulgazione di materiale video, un vero e proprio network televisivo globale.
Ad oggi YouTube ha espanso la propria rete di affari introducendo sul mercato digitale vari servizi, tra cui quello di streaming on demand, analogo a quello offerto da Netflix e Amazon, ma lo “zoccolo duro” resta comunque la mastodontica offerta dei contenuti autoprodotti dal popolo degli Youtuber, vera benzina per il motore di questa macchina dal fatturato miliardario.
Si può dire quindi che è nato un “antagonista digitale”, come già era accaduto per altre tecnologie del passato, in cui alcune caratteristiche si differenziano da quelle del progenitore: nel caso di YouTube il confronto va fatto con il sistema televisivo classico, in realtà un ecosistema di contenuti e pubblicità. Il modello digitale ha travolto le dinamiche che abbiamo imparato a conoscere negli ultimi decenni, senza ereditarne le caratteristiche maggiormente conservatrici.
Dove prima infatti esistevano regole rigide, dettate dal cosiddetto “Star System”, per la produzione dei contenuti artistici e l’ingaggio dei protagonisti, che non permettevano nessuna interazione (nel senso del contributo e del riscontro diretto) con il pubblico, ora troviamo uno scenario in cui la possibilità di accesso al sistema di distribuzione è libera e dove tutti possono interagire tra di loro.
Se prima la possibilità di produrre materiale era riservata a pochi, per non parlare della selezione (detto anche filtro sui contenuti) che avveniva a monte della trasmissione, ora esiste la completa libertà di espressione. Infine, se prima mastodontiche logiche commerciali influenzavano direttamente il mercato consentendo una retribuzione prefissata ai produttori e al casting, ora la possibilità di offrire materiale autoprodotto crea una logica retributiva per così dire meritocratica (anche se vedremo che questo è vero solo in parte).
Quanto detto consente di affrontare due domande, solo apparentemente semplici, che questa breve analisi impone: quali sono i cardini su cui gira questa giostra, tanto formidabili da permettere un’ascesa così iperbolica dei suoi ricavi? Che cambiamenti socio-culturali ha portato questo nuovo mezzo di divulgazione all’interno della società odierna?
Partiamo dall’accesso libero alla diffusione e l’interazione diretta con chi produce i contenuti, aspetti entrambi fondamentali di distinzione rispetto al sistema classico. Prima era pressoché impossibile avere un contatto diretto con i protagonisti delle produzioni TV, meno che mai si poteva accedere ai palinsesti; sulla piattaforma digitale quest’ultima cosa è fattibile, ed inoltre, essendo YouTube un vero e proprio Social Network, l’interazione diventa fondamentale, in quanto propulsiva della logica dei consensi che ne garantisce l’autoconsistenza; chiunque può crearsi un account e accedere alla piattaforma, per essere direttamente protagonista e promuovere quindi del materiale autoprodotto, in totale libertà di espressione.
YouTube è entrato con una certa prepotenza nella società e, come un bomba che deflagra, ha disintegrato alcune cose, come la proprietà intellettuale, ma ha anche fatto posto ad altre, come la nuova “anarchia mediatica”, che consente a qualunque individuo al mondo di promuovere un proprio messaggio a diffusione planetaria. La completa mancanza di controllo di quanto viene proposto (parlo ovviamente di materiale concorde ai termini di legge) va ovviamente a discapito della qualità della produzione stessa.
Nel vasto panorama degli opinionisti ed intellettuali di oggi, il dibattito è sempre acceso su questo tema. Umberto Eco per esempio, circa due anni fa nel corso della cerimonia di attribuzione di una laurea honoris causa in Comunicazione e Cultura dei Media, ha affermato apertamente che «i social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano al bar, dopo un bicchiere di vino senza però danneggiare la collettività che mi metteva subito a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel». Al contrario però, si può osservare che l’imposizione di un filtro sui contenuti andrebbe contro i principi che stanno alla base della base della grande rete, tra cui l’uguaglianza dei diritti di espressione.
A mio avviso il terzo cromosoma che, insieme ad accesso libero, interazione globale e libertà di espressione, concorre a caratterizzare questo “organismo” mediatico, è il feedback, ovvero il meccanismo retroattivo dei consensi. Ed è proprio attraverso quest’ultimo che lo Youtuber si esprime maggiormente. Se volessimo partire da un concetto primordiale, potremmo considerare la domanda più intima, e allo stesso tempo più chiara e semplice, che ognuno di noi si fa inconsciamente prima di qualunque azione: “Qual è il guadagno che deriverò da quello che sto facendo?”.
Ad una prima analisi questo tipo di quesito potrebbe sembrare banale, mentre in verità nasconde un collegamento con un bisogno primario per ognuno di noi: avere un ritorno in termini di consensi, e quindi di approvazione altrui (credo che l’aspetto economico arrivi dopo), per ogni nostro atto. In altre parole, la ricerca innata di quello che oggi è conosciuto come “Like”. Se prima, nella televisione classica, lo share di ascolto era l’indice che determinava il livello di successo di un’ “opera”, ora invece questo è basato non solo sul numero di visualizzazioni, ma anche sul numero di “Like” accordati.
Questi determinano il vero punteggio in termini di gradimento (tra l’altro questo valore è del tutto attendibile, al contrario dello share, che rappresenta solo una stima). Questo nuovo concetto di metrica si fonda su un complesso modello che, essendo inevitabilmente correlato ad una logica di ritorno economico, non può garantire integralmente quanto promette in termini di redistribuzione meritocratica della remunerazione.
Nel sistema classico, più alto è lo share, maggiori sono gli introiti dovuti alle pubblicità; in quello digitale, grazie appunto alla strategia di Google, maggiori sono visualizzazioni e Like, maggiori sono i ritorni di messaggi pubblicitari e banner introdotti nei video. Ciò comporta un’inversione della logica che sostiene la produzione di contenuti. Nel modello classico, chi produce del materiale investe su un protagonista piuttosto che su un altro (non entro nel merito dei costi vivi dell’emittente); nel nuovo modello una possibile remunerazione avviene solo dopo la pubblicazione del materiale, purché ovviamente riesca a catturare l’attenzione degli sponsor.
Quest’ultimo aspetto sembra banale, ma in realtà costituisce l’asse su cui gira tutta questa giostra dai fatturati miliardari, che sempre più promuove all’interno della società l’illusione di un guadagno facile alla portata di tutti. Un classico esempio di questo tipo di meccanismi sono le lotterie: chiunque può vincere (il lettore sa che quasi nessuno ci riesce) purché compri un biglietto (ovviamente ad un prezzo non equo, come dimostra il calcolo delle probabilità, altrimenti per chi gestisce la macchina non c’è guadagno).
Ma nel caso di YouTube come avviene la remunerazione? Partiamo dal primo passo, ovvero dall’obbligatorietà di sottoscrizione del programma di partnership con YouTube, cioè con Google: non è altro un “semplice” contratto che l’utente deve sottoscrivere per poter regolarizzare il processo remunerativo, ma dove vengono messi i primi paletti nell’area di manovra di chi vuol proporsi come Youtuber. Secondo quanto riportato dal EULA (End-User License Agreement) reperibile nell’area ufficiale di registrazione il primo vincolo per poter aderire al programma è avere sulla piattaforma già un “canale” che abbia avuto una media di 1.000 “followers” (utenti che lo seguono attivamente) e circa 4.000 ore di visualizzazione negli ultimi dodici mesi; il secondo è che la pubblicazione di nuovo materiale avvenga con una frequenza prestabilita: minimo un video a settimana.
Questi volumi a mio avviso sono già di per sé sfidanti, e necessitano di una grande dedizione in termini di investimento di risorse personali. Occorre ovviamente avere del talento per essere competitivi (ricordiamo i dati citati inizialmente) con i contenuti proposti, i quali debbono comunque sottostare a rigide linee-guida contrattuali: ad esempio, non devono violare le norme sul copyright e devono essere moralmente accettabili, nel rispetto dell’individuo e della collettività.
Gli algoritmi di Google vagliano infatti a tal fine quanto viene proposto dall’aspirante Youtuber, prima di consentirne o meno l’accesso al livello successivo, dove entrano in gioco gli sponsor. Se l’autore procede nell’iter, viene attivato il processo più importante, ovvero l’inserzione pubblicitaria; anche qui la piattaforma detta le regole del gioco.
Il meccanismo che regola il ritorno economico non risulta essere particolarmente chiaro, nemmeno attraverso la documentazione ufficiale della piattaforma e questo mi ha portato a fare parecchie verifiche prima di provare a definire la formula per gli incassi. La cosa certa è che comunque tale meccanismo si basa sul concetto di Costo Per Mille impressioni (CPM): questo indice non è altro che il corrispettivo economico che gli sponsor versano alla piattaforma (sottolineo alla piattaforma, non all’utente) ogni mille visualizzazione del loro spot nei video del canale.
Il CPM può inoltre variare da paese a paese, in base a dei specifici razionali che ne determinano il valore istantaneo (domanda-offerta, investimenti da parte degli sponsor, ecc.). In Italia per esempio secondo SocialBlade, piattaforma leader per le analisi statistiche sui Social Network, in questo periodo il valore oscilla tra 0,5€ a 2€.
Diversamente da quanto si pensa però, è importante capire che questo indice definisce un guadagno ogni volta che viene visualizzato per mille volte lo spot nei vari video del canale e non di mille visualizzazioni in generale. In altre parole si parla di “Visualizzazione monetizzabili”. I banner non sono infatti presenti in tutti i video riprodotti; per esempio per un utente-autore di fascia bassa si è intorno al 20% delle visualizzazioni. E’ ovvio che maggiore diventerà la fama dello Youtuber, maggiori saranno le visualizzazioni e di conseguenza la percentuale dei banner che appariranno.
Proviamo quindi a fare un esempio pratico, fissando il valore di CPM a 2€. Con mille visualizzazione sul canale è ovvio che l’incasso sarebbe di appena 2€, ma considerando la percentuale legata all’apparizione degli spot, questo importo si abbassa ulteriormente a circa 1,10€. La cosa tuttavia non è ancora da consideri conclusa, perché Youtube sull’importo generato, trattiene un 45% come revenue. A conti fatti quindi possiamo dire che uno Youtuber novello, incassa circa 0,62€ (ovviamente lordi) per ogni mille spot trasmessi sul proprio canale.
Ma mi chiedo quindi quant’è invece la contropartita per la piattaforma, considerando che nel solo 2017 sono stati guardati una media di cinque miliardi di video al giorno. Secondo i dati dell’ultimo del Fiscal Year reperibile da Alphabet, azienda Holding che gestisce tutte le società di Google, i profitti operativi della piattaforma social sono cresciuti del 15%, ovvero circa 7,7 Miliardi di Dollari. I ricavi sono saliti a un massimo storico di 32 Miliardi da 26 l’anno precedente, superando le stime degli analisti. Inoltre, in un articolo del Washington Post di inizio Febbraio, Ruth Porat, Chief Financial Officer di Alphabet ha affermato che le entrate del business pubblicitario di Google sono cresciute del 21% rispetto all’anno scorso e rappresentano l’84% delle entrate totali di Alphabet.
Alla luce di quanto menzionato e valutando i volumi dichiarati sui ricavi del gigante tecnologico ci si può porre quindi una semplice domanda: qual è il profilo dello Youtuber medio? E come può questo accettare simili condizioni di trattamento? Andiamo allora a capire chi è e cosa in realtà muove un utente attivista di YouTube.
L’esercito degli Youtuber può vedersi come una piramide suddivisa in tre grandi blocchi sovrapposti, rappresentanti delle categorie ed aventi un volume proporzionale al numero di utenti rappresentati: partendo dalla punta, la prima categoria, che chiamerei “Conoscitori”, è sicuramente quella più consapevole e professionale nella creazione del materiale da riprodurre. Un utente che appartiene a questa categoria di solito produce del materiale coerente in tutti i suoi contenuti, così come lo è la platea a cui si rivolge. I video trattano argomenti specifici e sono destinati ad un pubblico mirato, che riflette su quanto proposto con uno spirito di critica costruttiva.
La cosa interessante di questa categoria è che chi produce il materiale conosce bene il sistema e le sue regole. Questi Youtuber considerano infatti la piattaforma solo come un sistema efficiente per divulgare quanto hanno da dire, ed hanno una certa consapevolezza dell’investimento (distinguendolo dal guadagno). Molto spesso la loro fonte di “sussistenza” è nel mondo reale, dove si confrontano tramite relazioni sociali concrete che li aiutano a mantenere una netta separazione tra ciò che è vero e ciò che è invece virtuale.
La categoria che sta nel mezzo è quella che potremmo definire degli “Sperimentatori”: a differenza dei conoscitori, gli utenti di questo gruppo non hanno una piena padronanza del sistema, ma riescono ad utilizzarlo come un mezzo per mettere maggiormente in luce il proprio talento. Se un utente conoscitore molto spesso ha già una sua fonte di guadagno e probabilmente una vita lavorativa e personale già consolidata, lo sperimentatore punta alla creazione di una prospettiva professionale più ampia, “facendosi conoscere” grazie alla rete.
Un esempio è sicuramente quello del cantante Fabio Rovazzi, che, partendo da semplice Youtuber, è riuscito ad emergere dalla massa, promuovendo autonomamente i propri lavori su un suo canale digitale. L’utente “sperimentatore” prospera nella rete, ma riesce a mantenere un netto distacco tra ciò che è reale e ciò che non lo è, conservando, e continuamente alimentando, le proprie relazioni “vere”.
La terza categoria, sicuramente quella che essendo più numerosa costituisce la base della piramide, comprende soggetti definibili con il termine anglosassone di Needy: quelli brutalmente detti i “Bisognosi”. Chi fa parte di questa schiera solitamente non è mosso da una particolare motivazione, non ha un messaggio concreto da diffondere o un obiettivo chiaro per cui promuovere il proprio materiale.
Quello che sta alla base dei suoi contributi è un puro e semplice bisogno di considerazione; diversamente dai livelli precedenti, dove chi è protagonista risulta essere pienamente consapevole dei propri limiti e potenzialità, e utilizza la piattaforma digitale semplicemente come mezzo per promuovere il proprio essere “reale”, più che puntare esclusivamente su di essa per ottenere un ritorno economico, in quest’ultimo strato rientrano tutti gli utenti mossi semplicemente dalla voglia di “appartenere” al sistema.
Questo tipo di utente è infatti quello che si mette dietro ad un obiettivo perché vuol comunicare qualcosa che gli faccia avere un riconoscimento dalla comunità della rete: sente che l’esistenza stessa della sua persona consiste nel far parte del network. Si potrebbe parlare di necessità di comunicazione, ma non sarebbe sufficiente. Questo tipo di individuo non è inserito nel tessuto relazionale della realtà e accede solo al sistema della rete per esprimersi, non avendo il coraggio di farlo nella società in cui vive. Lo spazio virtuale costituisce il punto nevralgico di quell’esistenza, divenendo di fatto imprescindibile per mantenerne in equilibrio i comportamenti.
Non ci si può stupire se l’età dell’utente medio di questa categoria si colloca tra i dodici ed i sedici anni, ovvero nel pieno della fase adolescenziale, quella in cui l’individuo è più vulnerabile. Questi utenti creano la massa critica del generatore digitale di profitto, formando i numeri necessari a generarne gli incassi milionari. Sono loro che portano i maggiori introiti alla piattaforma continuando ad alimentarne il sistema di condivisione.
Non mi posso ritenere un esperto si sociologia ma ho potuto comunque maturare un idea personale a valle di quest’analisi: uno su mille, o forse a questo punto potremmo dire anche uno su un milione, ce la fa ad emergere; gli altri restano prevalentemente spettatori votanti e consumatori di pubblicità, continuando a sperare in un futuro radioso, fatto di considerazione, fama e guadagno facile.
La conclusione che mi sento di esprimere è che siamo davanti ai nuovi “servi della gleba”, ovvero degli ingranaggi umani di una macchina mastodontica ed inarrestabile, protagonista di un futuro produttivo di cui ovviamente saranno gli individui più “deboli” a pagare i costi maggiori. Il meccanismo di generazione del profitto si è evoluto passando dallo sfruttamento fisico, predominante nel passato e tuttora vigente in diverse parti del mondo, a quello psicologico.
Purtroppo, questo nuovo modello globale di fruizione dei contenuti artistici altro non è se non un grande palcoscenico digitale dove una moltitudine di attori sprovveduti si accalca per recitare in cambio di pochi spiccioli, garantendo come consumatori incassi ragguardevoli a chi possiede il teatro. Insomma potrei dire una grande illusione dove le logiche di un vecchio mercato decadono lasciando al loro posto nuovi equilibri e nuove dinamiche, motore di un una nuova economia basata sul virtuale, ovvero sul nulla.