Una pagliuzza nell’occhio del grande fratello

Francamente nei primi giorni dell’ormai famoso scandalo “Datagate” che ha investito Facebook Inc. e la società inglese Cambridge Analytica, ho avuto parecchia difficoltà nel lasciar sedimentare sul fondale della mia mente, i molteplici pensieri che mi stavano affollavano la testa. Quando poi sono riemerso dal mare del mio disorientamento, ho portato a galla con me due riflessioni che hanno assunto maggiore dignità rispetto alle altre.
La prima è legata al concetto di reputazione e alla capacità “manageriale” di gestire una Big Company quotata, la seconda si rifà invece in maniera più profonda all’identità e allo spirito di critica di chi fruisce del servizio offerto.
Partendo da una personale convinzione, che il CEO di una azienda i cui ricavi dell’ultimo anno sono stati di circa 3.57 miliardi di dollari possa avere alle proprie spalle una pletora di legali cosi come uno staff dedicato nel curare l’immagine pubblica, sono rimasto comunque perplesso da come l’amministratore delegato di FB Mark Zuckerberg, abbia rotto un lungo periodo di silenzio sulla questione, con un semplice post pubblicato sul proprio profilo:

«[…] Abbiamo fatto degli errori […] Abbiamo la responsabilità di proteggere i tuoi dati, e se non ci riusciamo, non meritiamo di servirti. Ho lavorato per capire esattamente cos’è successo e come fare in modo che non succeda di nuovo. Ma abbiamo anche commesso degli errori, c’è altro da fare e dobbiamo farlo. […]».

Confesso che leggendo queste parole ho provato inizialmente un sentimento di tenerezza, che però ha dato subito spazio ad una crescente paura, dandomi la motivazione nel descrivere alcune osservazioni da “uomo della strada”.

        Non si può non provare infatti della tenerezza per un ragazzotto che scrive al mondo intero liquidando chi lo osserva, con lo spirito di un adolescente tra i banchi di scuola, mentre sogna di baciare la bella della classe. E non si può poi non considerare invece la paura che ci nasce dentro, pensando che a lui abbiamo “regalato” le nostre relazioni, le nostre informazioni personali, i nostri sentimenti e quindi la nostra dignità.
Così, facendo l’esercizio di interpretare le parole di Zuckerberg, ho delineato due scenari percorribili, distinti e contrastanti.

Il primo vede il CEO della più grande piattaforma social, consapevole di quello che stava succedendo e quindi complice di questo scandalo a tiratura planetaria. Il secondo al contrario, la completa estraneità dei fatti in quanto non informato su quanto stava accadendo all’ interno della propria società.

Nel primo caso non mi preoccuperei troppo, perché il tutto si potrebbe risolvere con delle ripercussioni giudiziarie nei confronti dell’azienda.
Ora come non mai la fragilità dei mercati tecnologici è così palpabile. Il giorno dopo lo scandalo il titolo in questione è sceso del 6,7%, bruciando ad oggi in un battito di ciglia, un volume di circa 75 miliardi di dollari di capitalizzazione (Sole 24Ore) portando a picco inoltre altri medesimi titoli tecnologici. D’altro canto è vero anche, che queste tipologie di aziende hanno le spalle larghe e probabilmente tutto si potrà risolvere con una maxi multa a valle di una Class Action, dando un po’ di fastidio al gigante blu per un periodo medio lungo.
Quello che però mi fa maggiormente riflettere è il secondo scenario, ovvero la possibile totale inconsapevolezza di quello che stava accadendo. Questo a mio avviso è ancora più preoccupante, perché proverebbe una mancanza di governo su uno dei più grandi patrimoni informativi del genere umano.

      Ciò darebbe adito a pensare che non esistano processi aziendali corretti, organi di vigilanza garanti della sicurezza del dato, analisti che verificano la bontà del codice applicativo pubblicato, corretti flussi e modelli di reporting. Il tutto forse legato in maniera trasversale da strumenti di collaborazione e comunicazione inefficienti o forse completamente assenti (è il caso di dire che a casa dell’idraulico i lavandini perdono acqua).
Un azienda il cui volume di affari nasce dalla gestione etica di un patrimonio informativo, deve essere continuamente sotto la lente d’ingrandimento dei così detti Organi Competenti di Vigilanza che dovrebbero verificare sul dato stesso la garanzia della riservatezza, dell’integrità e dalla sicurezza nell’ accesso diretto. Da qui allora nasce la seconda riflessione, ovvero che forse alla base manca da parte di chi usufruisce del servizio, uno spirito di critica come risultante di un sano e corretto ragionamento su ciò che potrebbe succedere sottoscrivendo un nuovo account.

      Ho già avuto modo in altri miei lavori di descrivere come la popolazione “internauta” sia stata organizzata dagli esperti di settore, per tipologie di utenza in base all’anno di nascita. Tra questi esperti c’è l’antropologo Brian Solis che posizionando agli antipodi la Generazione X (nati tra il 1965 ei il 1980) e quella definita come Generazione Z (nati dopo il 2000), ne identifica i cromosomi che ne formano il rispettivo DNA. Da qui emerge che diversamente dai i “vecchi”, gli appartenenti all’ultima generazione prediligono più che l’accuratezza, la velocità di accesso al dato stesso che avviene in maniera completamente interconnessa e in multi modalità attraverso più dispositivi.

       I primi sono consapevoli dei rischi della rete, perché provengono da un mondo reale con cui mantengono comunque un contatto e perché conservano ancora una sana diffidenza nelle tecnologie. Al contrario, i secondi identificano il proprio “IO” nel cyberspazio con una trasposizione quasi totale. Questo implica la «necessità estrema di essere» nelle reti sociali, al costo di doversi sacrificare inconsapevolmente ai meccanismi e alle logiche che stanno alla base di queste piattaforme. In altri termini: «Io pongo inconsciamente fiducia indiscussa, in quanto faccio parte del sistema».

      Assistiamo allora ad una totale scomparsa del ragionamento, dell’analisi e quindi della critica, che dovrebbe invece guidare alla riflessione non tanto su quanto sta succedendo, ormai cosa nota, ma invece su quanto potrà ancora accadere in futuro. Personalmente non credo che questa onda d’urto provocherà chi sa quali danni. Ho il sentore invece che presto tutto sarà messo a tacere, magari con la maxi multa di cui si discuteva prima, ma comunque sia non se ne parlerà più fra un po’ di tempo.

       E’ una sensazione che ho provato in altre occasioni, e durante altri scandali. Mi viene in mente per esempio quello legato alle batterie degradate dell’iPhone. Anche in quel caso abbiamo assistito alle scuse ufficiali dalla casa madre, che ha ovviamente negato la possibilità di una volontaria manomissione dei dispositivi. Ammetto che l’impatto è stato diverso e che per pigrizia non sono più andato a verificare l’andamento del titolo o analizzare il bilancio dell’ultimo trimestre di Apple, ma posso supporre comunque con serena tranquillità, che il CEO Tim Cook ad oggi dorma serenamente (ammesso che abbia mai perso il sonno).

      Quello che voglio dire, è che comunque si concluda questa storia, gli utenti dovrebbero percepire una sensazione di vulnerabilità davanti a scandali come questo e logiche di mercato dai ricavi miliardari che sfruttano i cervelli distribuiti, illudendoli prima e soggiogandoli poi. In conclusione ritengo che alla fine, dopo che la bolla si sarà sgonfiata (e lo farà) tutto tornerà nella normalità di ogni giorno.

     La storia insegna che queste cose sono cicliche e con molta probabilità un ormai dinosauro come Facebook presto o tardi si estinguerà, sicuramente non in rovina per uno scandalo, ma piuttosto per un cambio generazionale che porterà gli utenti di domani ad essere comunque nuovamente “automi schiavi” di un altro grande fratello che ripercorrerà lo stesso copione affinando solamente la tecnica di adescamento.