Noi e Roy, abbiamo salvato Facebook

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Per chi negli ultimi messi fosse rimasto in vacanza al largo dei bastioni d’Orione o ad ammirare  i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser, vorrei ricordare come in Marzo dell’anno scorso il valore delle azioni di borsa del Social Network per eccellenza crollò, per un “piccolo” problema legato all’acquisizione di dati da parte di una società chiamata Cambridge Analytica e ceduti da Facebook all’insaputa del suo CEO Mark Zuckerberg (così almeno ammise a Washington davanti alla Commissione Energia e Commercio della Camera).

L’onda d’urto di questo scandalo fece tremare le fondamenta della società fondata dal ricciolone, nonché minato un potenziale sistema d’intelligence sommerso, basato sull’utilizzo di grandi quantità di dati che potrebbero aver influenzato i risultati per la corsa alla Casa Bianca favorendo così a suo tempo, il candidato Donald Trump. Ovviamente tutto finì come ci si aspettava: Cambridge Analytica dovette chiudere, (o venne fatta chiudere) per conclamati problemi di reputazione. Invece la questione delle “elezioni pilotate” finì stranamente per essere insabbiata.

La cosa più singolare però è che in tutto questo il titolo Facebook, contro ogni logica aspettativa, riprese quota anche a fronte dell’uragano mediatico che gli si scagliò contro, e questo mi diede da pensare. Solitamente un titolo in borsa è legato alla fiducia del mercato, che a sua volta è in relazione con una popolazione che usufruisce del servizio o del bene offerto dalla realtà rappresentata dal titolo stesso. Questo principio, che sta nel DNA del sistema economico moderno, tuttavia in questo caso non funzionò. Gli utenti infatti, pur essendo magari rimasti sfiduciati, continuarono comunque ad utilizzare la piattaforma come se il problema non fosse mai esistito.

Non ritengo che il “mea culpa” di Zuckerberg espresso alla corte, accompagnato per altro da due occhioni rossi e umidi, abbiano convinto gli utenti sull’innocenza della società. Non credo poi che questi ultimi si siano rasserenati per l’introduzione dell’allora nuova normativa sulla privacy chiamata GDPR, che magicamente avrebbe messo ordine e rigore sulla gestione dei loro dati personali (altro fumo negli occhi). Sono convinto piuttosto che alla base di questo, ci sia stata semplicemente la paura di lasciare la comunità e abbandonare la propria rete di relazioni, uscendo di fatto dal “gruppo”.

Il fenomeno viene identificato con l’acronimo FOMO (Fear Of Missing Out) e definisce sostanzialmente la paura che nasce dall’essere “tagliati fuori”. Essere parte di un gruppo ovvero di una comunità è una necessità dettata dalla nostra natura umana.  Che lo si voglia o no, ogni giorno siamo spinti ad indentificarci in un uno o più gruppi, che di ritorno ci trasmettono sensazioni di accettazione, considerazione e quindi serenità. Amici, colleghi, parenti sono tutti contesti in cui cerchiamo un riconoscimento, e questo vale nella realtà quotidiana cosi come nel virtuale.

Sulle piattaforme sociali dopo aver “sdoganato” il nome e cognome, abbiamo costruito negli anni le nostre relazioni parallele, condividendo foto, ricordi, post e altro ancora, identificando così il nostro “io” all’interno del cyber-spazio. Abbiamo capito che lì potevamo mostrare il meglio di noi, perché vorrei sottolineare che nei Social Network “evidenziamo quello che aspiriamo ad essere e non tanto quello che siamo in realtà”.

Piattaforme come Facebook hanno costruito una potente strategia che tuttora fa leva su queste nostre debolezze e necessità, perfezionando pian piano, un sistema di riconoscimento emozionale. Il risultato è che siamo assuefatti dal desiderio di consensi, e ci mettiamo così alla ricerca di “Followers” e di “Like” da chi ci sta attorno, arrivando pure ad elemosinarli utilizzando tristi funzioni del tipo: “Invita i tuoi amici a mettere Mi piace”. Il meccanismo tende cosi a creare una vera e propria forma di dipendenza, che spinge gli utenti ad essere sempre più connessi e a condividere sempre più informazioni. Su Facebook ci presentiamo con la nostra vera identità e non con uno pseudonimo, come avveniva nelle prime piattaforme di community di fine anni novanta.

Chiudere quindi il proprio account equivale a “cancellare” allora la propria immagine perfetta, costruita nel tempo in maniera precisa, con cui ci si è sempre presentati alle nostre amicizie virtuali. In conclusione, ritengo personalmente che sia stato oltrepassato un punto di non ritorno, in cui la primordiale necessità di “essere allineati e presenti nella comunità” ha portato inevitabilmente a sacrificare il nostro spirito critico e buon senso.

Una volta avremmo boicottato un simile ricatto, ma ora siamo come un fumatore che, seppur conscio dei danni provocati dal proprio vizio, trova comunque mille scuse per posticipare il giorno in cui butterà l’ultimo mozzicone. Per carità, aspettarsi il fallimento di Facebook a valle di questo scandalo sarebbe stata una assurdità, ma una flessione significativa dell’andamento in borsa come segno di consapevolezza sarebbe stato consolante.

Questo non è avvenuto e ormai tutto rientrato all’interno delle solite logiche commerciali, dove un giovanotto continuerà a mantenere legate ai propri jeans strappati la chiave del patrimonio informativo di quasi la metà della popolazione mondiale, e tutta questa storia andrà dimenticata. In altri termini, per usare una frase di Roy Batty: tutte queste cose andranno perdute come lacrime nella pioggia.