Unicredit esce da Facebook per etica? (Forse) la verità è un’altra.

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Ormai è ufficiale: Banca Unicredit dal primo giugno ha chiuso i propri canali su Facebook ed i servizi correlati. In merito a questa decisione, non usa mezzi termini il comandante Jean Pierre Mustier quando dice «La scelta è dettata dall’etica […] vogliamo tornare a valorizzare i canali digitali proprietari per garantire un dialogo riservato e di alta qualità».

I più romantici potranno anche essere stati persuasi da questa spiegazione del manager dall’espressione di plastica, ma la finanza ci appassiona perché a certi livelli è come assistere ad una partita di scacchi, e il Bobby Fisher di piazza Gae Aulenti non è certo uno che fa l’arrocco semplicemente per nobiltà d’animo.

Lo scandalo Cambridge Analytica avrà sicuramente avuto il suo peso in questa scelta (e questo un po’ mi rincuora), ma scavando a fondo emergono diversi indizi interessanti, che messi assieme fanno capire come negli affari l’altruismo e l’etica contino ben poco. Facciamo allora un passo indietro, tornando al 2015 e introducendo il Sig. David Marcus, ex CEO di PayPal, che in quell’anno vende l’anima al diavolo ricciolone, accettando di diventare vice-presidente della divisione Communication di Facebook.

Da subito il brizzolato prende le redini di un progetto strategico per fare evolvere Messenger, la piattaforma di chat del social network, integrandola con diverse nuove funzionalità, tra cui una componente di e-commerce basata su sistemi di pagamento proprietari; sviluppa per prima cosa un modello di business immediatamente sostenibile, al fine di portarsi poi al tavolo nomi eccellenti del credito, come Mastercard, Stripe, American Express, Visa e ovviamente PayPal, tutti attirati dai ritorni economici potenzialmente stratosferici di un mercato in piena espansione. È un successo. Dalla carta si passa subito ai fatti, portando nei successivi tre anni il numero degli utenti attivi da 600 milioni a quasi due miliardi.

Ma mentre gli inverni e le primavere passano sereni a Menlo Park, nel mondo pian piano inizia a concretizzarsi una nuova opportunità in ambito finanziario: la criptovaluta.  Tutti vengono subito abbagliati dall’illusione di facili guadagni e papaveri del calibro di Warren Buffet, Muhammad Yunus e Amartya Sen iniziano i loro spettacoli pubblici dissertando su pro e contro di questo nuovo asset speculativo dai connotati sicuramente atipici rispetto all’economica classica.

Nel frattempo i dittatori digitali non rimangono con le mani in mano e iniziano a spendere “qualche dollaro” in ricerca e sviluppo su questa nuova tecnologia. Così, all’inizio del 2017 il nostro ricciolone entra nell’ufficio del già citato Signor Marcus per risvegliarlo dalla sbornia del successo ottenuto con Messenger, sottolineando che non lo ha messo lì per fare lo scaldabanchi.

La lavata di capo è salutare al punto tale che in fretta e furia viene creato un nuovo team, con ambizioni ben più grandi rispetto all’evoluzione di Messenger: creare una criptovaluta proprietaria che circoli dentro Facebook. Nasce così un progetto chiamato Libra (o Lybra). Le prime attenzioni vengono rivolte alle caratteristiche che la futura moneta digitale dovrà avere.

Al tempo il dibattito sul controvalore di una criptovaluta è acceso quanto e più di adesso, perché non essendo questa legata ad una riserva aurea o al bilancio di un governo, essa resta volatile, ovvero affidata alla sola speculazione.  Per Libra si decide di optare allora per un modello diverso, ovvero uno “stablecoin” detto fiat-collateralized.

La forza di questa tipologia di moneta digitale risiede nella stabilità. Invece di affidare la criptovaluta al mercato, questa viene collegata a risorse misurabili come per esempio il dollaro USA, mantenendone comunque l’autonomia rispetto ad una banca centrale. Ma chi a quel punto può garantire la capitalizzazione di Libra?

Entra allora magicamente in scena JPMorganChase, il principale istituto bancario statunitense specializzato in asset management, che già ha iniziato a lavorare ad un suo progetto sulle criptovalute. Dato che ciascuno di noi è bravo soprattutto nel proprio lavoro, viene avviata una trattativa per definire una partnership nella quale il Grande “F”ratello metta a disposizione un’infrastruttura adeguata e il banchiere Jamie Dimon la copertura economica per bilanciare la moneta digitale.

L’affare si rivela vincente da molti punti di vista, tanto che nell’ottobre del 2017 Facebook acquista una licenza bancaria in Irlanda per iniziare ad offrire prestiti personali ai propri utenti. Con Libra viene di fatto integrata una blockchain con un network di cui fa parte un quarto della popolazione mondiale, dando modo agli utenti di poter spostare fondi e gestire microcrediti tramite una semplice App.

Ad oggi Libra è una realtà consolidata in India, dove gli utenti utilizzano WhatsApp per eseguire pagamenti, mentre da noi si è mantenuta in sordina, nonostante alcuni articoli davvero interessanti di Pierangelo Soldavini sul Sole24Ore. A questo punto si comprendono le vere ragioni della mossa di Mustier.

Nel contesto europeo, infatti, la direttiva PSD2 ha scardinato le dinamiche classiche mediante cui le vecchie banche si sono sviluppate; il taglio delle commissioni interbancarie e l’introduzione dell’open banking hanno reso potenzialmente redditizi per gli istituti di credito i dati dei propri clienti.

Quindi: chi in Italia vanta quasi 31 milioni di account, oltre ad avere uno dei patrimoni informativi più completi e articolati al mondo? Il cerchio si chiude. Secondo alcuni esperti, Zuckerberg ha intenzione di iniziare la sua simultanea di scacchi in Europa nel 2020, ovvero Facebook da solo contro tutti. Staremo a vedere come andrà a finire, ma per ora comprendiamo perché il Bobby Fisher di Piazza Gae Aulenti abbia “eticamente” deciso di mettersi al riparo da uno scacco al re.